Quando tutto è Sicilia, niente è davvero Catania. Simboli, potere e identità nel tempo dell’omologazione visiva.

Essere Siciliani è un onore. Ma essere catanesi è una responsabilità.
— BOB Liuzzo (Designer e autore del simbolo indipendente di Catania).

C’è una Sicilia che portiamo addosso ovunque andiamo. È l’isola che gli altri immaginano: luminosa, profumata, spettacolare. Ma anche quella che spesso raccontiamo noi stessi: con orgoglio, con rabbia, con amore. Una terra che ci contiene, ci plasma, ci condiziona. Una madre severa, bellissima, a volte ingombrante.

Negli anni, però, ci siamo chiesti se questa Sicilia – come narrazione pubblica, brand turistico, simbolo culturale – non sia diventata troppo grande. Così grande da non lasciare più spazio a nient’altro. Così totalizzante da non permettere a nessuna delle sue città di parlare con la propria voce.

Quando “Sicilia” diventa tutto (e nulla)

In aeroporto, in autostrada, nelle pubblicità, nei social, nei gadget: “SICILIA”. Sempre. Ovunque. A lettere maiuscole, in mille colori, con mille slogan. “Sicilia – your happy island”, recita oggi il brand turistico ufficiale. Una scritta sorridente, globale, accessibile. Ma anche, forse, un po’ vuota. Come se bastasse pronunciare quel nome per rappresentare tutto: luoghi, accenti, persone, cucine, storie.

E Catania? Dov’è? A volte è Etna. A volte è Barocco. Altre volte è “Sicilia orientale”. Ma raramente viene nominata per ciò che è: Catania.

L’identità regionale, per quanto nobile e potente, rischia così di diventare una narrazione che omologa, che semplifica, che cancella le differenze. Lo dice chiaramente anche il designer BOB Liuzzo, ideatore del Simbolo Indipendente di Catania: “La Sicilia è una forma bellissima. Ma quando la forma diventa contenuto, allora si comincia a perdere il senso delle cose.

La Trinacria: simbolo antico, ma oggi insufficiente

Anche la Trinacria – emblema arcaico della Sicilia – non è più sufficiente. È potente, è radicata, è identitaria per alcuni. Ma non è rappresentativa per tutti. Non parla la lingua delle città. Non racconta Palermo, non racconta Siracusa, non racconta Catania. E soprattutto, è diventata il volto unico di una regione che unica non è. È ovunque: nelle bandiere, nelle campagne istituzionali, nei souvenir. Ma quanto più si ripete, tanto meno dice. Il rischio è che la Trinacria diventi uno sfondo indistinto che copre tutte le differenze, invece di valorizzarle.

La Trinacria potrebbe convivere con altre simbologie?

La Sicilia come il Texas

Il rischio non è teorico. Basta guardare il modo in cui il marketing territoriale è costruito: a Palermo si promuove la Sicilia. A Siracusa, pure. A Trapani, lo stesso. Tutto diventa Sicilia. Le città sembrano sparire sotto un’unica narrazione madre che non accetta i suoi figli per egocentrismo.

Ma l’identità non funziona così. Nessun milanese dice “sono lombardo” prima di dire “sono di Milano”. Nessun texano dimentica di essere di Houston o Austin. Persino in un luogo fortemente identitario come il Texas – che come la Sicilia è un “luogo-stato” con una forma grafica riconoscibile – ogni città ha una sua voce, un suo codice, un suo simbolo che si impone a gran voce all’interno dell’identità della “Lone Star” che rappresenta lo stato americano.

Il caso Ragusa e i limiti del branding tradizionale

Anche il caso del city branding di Ragusa merita una riflessione. Un progetto ben curato, con tono gentile, visivamente coerente, incentrato sull’idea di un sorriso come tratto distintivo. Una bella intuizione, ma forse troppo delicata per reggere l’urto dell’identità urbana. I simboli non devono solo “funzionare” a livello grafico. Devono vibrare nella gente, generare appartenenza, definire legami. E un sorriso, da solo, probabilmente non basta.

Dire Catania con un simbolo condiviso

Da qui nasce l’intuizione di creare un simbolo autonomo per Catania. Non un logo istituzionale. Non un prodotto commerciale. Ma un gesto visivo, radicale nella sua semplicità. Tre linee. Tre colori. Nero, rosso, azzurro. Etna, lava, mare. Il simbolo – dice BOB Liuzzo – “non scrive Catania perché un buon simbolo, se funziona, fa risuonare la parola anche quando non la scrive. Come il baffo Nike. Come la freccia nascosta in FedEx.

Quando qualcuno lo indossa o lo disegna chi guarda potrà chiedere “Cosa significa?”, si attiva un racconto. E in quella spiegazione – “il nero è l’Etna, il rosso la lava, l’azzurro il mare” – nasce una narrazione nuova, personale, autentica. Un passaparola emotivo. Questo Simbolo non scrive Catania ma ti permette di raccontarne a chi vorrai la sua pura essenza, ciò che la rende possibile nel mondo e che ha generato millenni di storie e persone.

La cosa straordinaria è che questo simbolo ha iniziato a viaggiare. Lo hanno adottato squadre sportive, artisti, birrifici, associazioni, studenti, artigiani. Lo si è visto dipinto sui muri, ricamato sulle magliette, stampato sulle etichette. Qualcuno lo ha tatuato. Qualcuno lo ha usato per spiegare a un bambino cos’è la sua città. E questo è qualcosa che va ben oltre i confini del marketing e del branding. Questo è quello che inizia a chiamarsi “legame”.

NO! Un logo sportivo non può fare questo sporco lavoro.

In tutto questo, è importante chiarire un punto: le squadre sportive non possono essere l’unico volto simbolico di una città. Per quanto ci appassionino, restano aziende private con interessi commerciali. Usano i colori della città, ma non ne rappresentano il senso profondo. E se l’unica bandiera che abbiamo è quella del club calcistico locale, allora il discorso identitario si è ridotto a merchandising. Per quanto amiamo le nostre squadre, le seguiamo in trasferta e ne possediamo i simboli non potranno essere mai un sostituto valido per raccontare un luogo. Dobbiamo sapere dividere bene queste simbologie perché altrimenti saremo prodotti e non persone.

Il simbolo indipendente di Catania è diventato collettivo. Non appartiene più a chi lo ha disegnato. E nemmeno a chi lo tutela. Appartiene a chi lo sente proprio. È un segno democratico, aperto, accessibile. Nessuno è obbligato a usarlo. Nessuno è escluso dal farlo.

WECATANIA – l’associazione che nasce per custodire e promuovere questo simbolo – ha proprio questo scopo: non venderlo, non blindarlo, ma mantenerlo libero. Proteggere la sua funzione culturale, urbana, sociale.

Eppure qualcuno chiede: “Se è di tutti, perché lo vendete?

È una domanda legittima, a cui l’associazione risponde con trasparenza: non tutti sanno stampare, disegnare, ricamare. Non tutti hanno tempo, strumenti o competenze. Lo shop online esiste solo per agevolare chi vuole portare il simbolo con sé. Perché in un’epoca dove tutto corre, anche l’identità ha bisogno di gambe.

Chi vuole lo disegna. Chi vuole lo cuce. Chi vuole lo compra. Chi vuole lo ignora. E ognuna di queste scelte è legittima.

Tifoso sventola la bandiera della città e non della squadra allo stadio Angelo Massimino

Quando anche le istituzioni tornano a dire “Catania”

In un mondo dove ogni logo è fatto per vendere, questo simbolo è stato fatto per dire. Per raccontare una città che per troppo tempo ha avuto la voce bassa nei racconti istituzionali. Ecco perché anche una campagna come “Catania è Casa”, promossa dal Comune, ha avuto per noi un valore importante. Non tanto per la creatività o per il tono comunicativo, quanto per la scelta di scrivere, dire, mostrare il nome della città. Per una volta non su un cartello stradale, ma in uno spot, su un manifesto, in un messaggio collettivo. Una dichiarazione d’identità.

un simbolo che non pretende, ma serve

Catania ha bisogno di parole che la nominino, di segni che la rappresentino, di persone che la raccontino. Il Simbolo Indipendente è solo uno strumento, non una soluzione. Ma a volte gli strumenti giusti arrivano nel momento giusto.

Non so quanto durerà questo simbolo,” ha detto BOB Liuzzo, “ma se anche una sola persona, vedendolo o indossandolo, ha detto ‘questa è casa mia’, allora è già servito.

E per un simbolo, non c’è destino più grande di questo.

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